24. Quando un operaio muore

 

[Sugli scogli di Taranto, località lama]

Qualche anno fa lasciavo l’Ansaldo. Delle 1.100 unità degli anni ’80, eravamo rimasti in 6 dipendenti a Taranto per seguire la “nuova”, o per meglio dire, la riciclata Ilva della famiglia Riva. In pratica, avevamo l’incarico di progettare l’automazione del processo produttivo dell’acciaio. L’inferno sulla terra. Acciaio fuso a 1.200 gradi, fuoco in movimento da modellare. Ebbene! Nonostante il livello professionale di noi 6 tecnici, Saba, Pino, Angelo, Mario, Angelo, Antonio e quello della nostra azienda, eravamo tutti sotto un terribile ricatto. L’imprenditore industriale privato, Riva, ci avrebbe fornito commesse di lavoro se avessimo preteso in cambio meno soldi per un lavoro ben fatto, da eseguire in tempi sempre più stretti.. E così, fino alla fine del 2001, per conservare il posto di lavoro nella nostra città, si scendeva a tutti i compromessi e i ricatti. Non c’era a disposizione alcuna logistica sugli impianti siderurgici, il computer portatile veniva appoggiato sulle grandi bobine di legno in cui erano avvolti i cavi elettrici, per sedersi si doveva usare il primo mattone che ti capitava a tiro, nessuna prevenzione per l’acustica, nessun prevenzione per le esalazioni chimiche ed il pulviscolo d’acciaio che si respirava, tempi di lavoro da fine ’800 (18, 20 ore al giorno senza alcun riposo settimanale, 7 giorni la settimana, nonostante le regole e le leggi ipocrite imposte dagli enti statali). Non esagero e non scendo in ulteriori dettagli. È tutto documentato. Ma ciò che non abbiamo mai provato sulla nostra pelle è ciò a cui erano costretti i ragazzi delle ditte appaltatrici più piccole della nostra ex corazzata Ansaldo. Loro avevano le facce nere piene di olio e grasso delle grandi macchine siderurgiche, dopo essersi infilati con tutto il corpo nei grandi ingranaggi. Abbiamo rischiato tanto ed abbiamo assistito a numerosi incidenti, incendi, situazioni pericolosissime, anche morti. Sicurezza zero o quasi. Nessuna visita ispettiva. E poi ci stupiamo quando un operaio muore. Questo è il motivo per cui nel 2001 ho cambiato città e lavoro, nella speranza di non essere stato contaminato dall’amianto. Ma questa è un’altra storia. Presto ve la racconto. Direttamente dalla mia pelle.

Commento Uno 
Il sud o il nord? lavoro stabile o precario? lavoro sicuro o pericoloso? o lo Stato A o lo Stato B? In quale categoria abbiamo la fortuna/disgrazia di appartenere per nascita, scelta o caso? Proprio chi passa fra le categorie ha più diritto di parola degli altri; è una testimonianza che vale, ha più senso e credibilità. Non possiamo negare la conventio ad excludendum di chi appartiene alle singole categorie, se stai dentro la categoria “positiva” difenderai inconsciamente la tua posizione e verserai calda e partecipata solidarietà ai tapini dell’altra parte. La solidarietà è un concetto ipocrita. Come lo stupore e l’indignazione. La compassione e la comprensione non ci assolve come singoli. La partecipazione emotiva ai lutti è la scoperta, comandata a bacchetta dai media, di una realtà che tutti conosciamo ma che per autodifesa e viltà intellettuale fingiamo di non sapere. Nessuno è innocente. Qualunque soluzione nasce dall’assunzione della propria personale responsabilità. Che c’è sempre a diversi livelli. Finché pensiamo che le cause del problema dipendano sempre e solo dagli altri, non ci sarà soluzione. La società è un organismo interconnesso: le colpe dei datori di lavoro o del governo si intersecano con quelle dei sindacati, del parlamento, dei giornali, lavoratori, degli elettori, dei consumatori, dell’opinione pubblica. Io non mi assolvo. Il sonno della ragione genera mostri Goya.