45. Come curare il mal di testa

[Il Molo Audace e il porto vecchio a Trieste, in un’alba invernale]

 

Giornata uggiosa a Trieste. Insolitamente uggiosa. Ma è un “insolito” che dura da circa tre giorni. Sarà questo il motivo della pesantezza che sento sulla testa e del cerchione sulla fronte. Piove incessantemente, ma una pioggia quasi milanese. Allora perché aspettare il sole per uscire di casa o dall’ufficio, come fan tutti? Non mi piace la mandria, il gregge che si muove tutt’insieme, circoscritto dai cani pastori. Decido! La pausa pranzo la passerò in acqua, sotto l’acqua: sopra, sotto e dentro. Quale tempo migliore per prendere la mia rossa, Yamaha Fazer? Senza guanti, mani nude, si parte. Direzione canottiera. Non c’è nessuno nella sala barche. Al piano di sopra 4 soci “meno” giovani giocano a carte mentre una signora, la cuoca, prepara un pranzo per gli avventori abituali. Lo spogliatoio mi presenta un compagno di voga. L’ho visto una sola volta. Forse ha la mia età, ma è molto prudente. Si veste da palestra per muoversi al chiuso, con gli attrezzi sportivi. Gli dico che io ho altre intenzioni e così lo invoglio a sfidare il maltempo. Ci rendiamo complici uno dell’altro. Ci prepariamo. Berretto e cerata per coprirsi bene. Caliamo in acqua due barche, una per ognuno di noi. Io sono il primo a partire. Lui prende una direzione, io l’altra. Il mare é completamente nero in “Sacchetta”, il porto delle canottiere e delle società veliche del centro città, ed è una tavola, perfino troppo piatta. Non lo è mai stato così. I remi accarezzano di nuovo il mare. Nessuno all’orizzonte. Non si muove nulla. Trieste pare che dorma e sia coscientemente distratta, per non mostrare il viso accigliato, paterno e preoccupato di chi assiste ad un atto incoscientemente “coraggioso”. Un atto “inusuale”, per la nostra vita sociale di una giornata normalmente lavorativa e piene di impegni. I rumori di fondo sono filtrati dalle nubi basse e dalla fitta nebbia sulle pendici del Carso. I suoni arrivano a me ovattati, come se avessi le orecchie tappate. In diga il Trinidad, una nave da carico, sta facendo manutenzione e si lascia penetrare dalle proboscidi di grosse gru da porto che ricordano le goffe macchine da guerra di Star Wars, quelle che camminavano su improbabili gambe metalliche, mentre sparavano all’impazzata. Si sente una voce da un megafono, l’unica voce umana in quell’atmosfera surreale e al tempo stesso tetra. E’ la voce di un portuale che invita all’azione gli “umani”, abitanti della nave “fantasma”. Avevo scelto la via del mare aperto e mi trovo oltre diga. La voce sembra giungermi dall’alto del cielo. Intorno a me onde lunghe, nebbia bassa, la striscia di Grado e Monfalcone non esiste più, la pioggia l’ha cancellata. Le montagne sono state risucchiate dalla fossa delle Marianne, le Alpi sono solo un ricordo. Le stelline sul pelo d’acqua, che formavano un tappeto sul quale la mia barca scivolava nelle giornate splendide di sole aureo, sono state inghiottite da qualche mostro marino. E come per confermare tutto ciò, intravedo al largo una carcassa, così appare ai miei occhi. Non si tratta di un relitto, ma di una vecchia nave da carico, ancorata in rada. Una barchetta con alcuni uomini a bordo è sotto di essa come un pesciolino pulitore intorno alla sua balena. È realmente tutto irreale. Spettrale. Mi trovo nel triangolo delle Bermuda. Non esagero. Sento solo il rumore del seggiolino della mia barca che va orizzontalmente su e giù e i remi che infilzano l’Adriatico. E poi sento i battiti del mio cuore. La frequenza delle pulsazioni aumenta con l’aumentare delle vogate e così, giunto all’altezza del faro della Vittoria, mi fermo, gustandomi il volo del mezzo sul mare, l’atterraggio… La barca si ferma e, tenendo ben saldi i remi in mano con le pale adagiate sulla tavola marina, mi sdraio all’indietro, schiena sul fondo della barca, guardando in alto il cielo grigio. Piove! Ho il fiato grosso ed ora ascolto solo me stesso. Non c’è nulla intorno a me, solo acqua e cielo. Fisso in alto e vedo un rapace che libra in alto sotto la pioggia. Quelle stesse gocce cadendo dall’alto, bagnano prima lui, 100 metri sopra il mare, e poi me, posato a 5 centimetri dal pelo marino. Le gocce di pioggia giocano col mio viso, mi rinfresco dell’acqua dolce, schiudendo lentamente le labbra. Sento l’arsura placarsi in questo scambio con delle particelle fresche e cariche d’acqua cadute da centinaia di metri più in alto, e di esse mi disseto. Il mal di testa è solo un ricordo.

Commento Uno
Sei un vero panteista! Quando racconti la natura riesci ad esprimere il meglio di te. E’ un rapporto speciale con l’Elemento che io non conosco ma che con le tue parole mi fai percepire. Quando diventi tutt’uno con lo Sfondo Naturale, scompare lo Sfondo Umano. E’ riappropriazione della propria essenza primigenia. Scoprire la consapevolezza di sé immergendosi nel tutto… ebbrezza di vita.