81. L’inferno dei viventi

[Miramare, Trieste]


Marco (Polo) entra in una città. Vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere suoi. Al posto di quell’uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fermato nel tempo, tanto tempo prima, oppure se tanto tempo prima a un crocevia, invece di prendere una strada, avesse preso quella opposta e dopo un lungo giro fosse venuto a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza. Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso. Non può fermarsi. Deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. L’inferno dei viventi non é qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più’. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio. (Italo Calvino da: Le città invisibili)

Commento Uno
Vorrei non vedere l’inferno, veramente. Vorrei abituarmi, scomparire in esso. Non ci riesco. È meglio un oblio cieco che una coscienza sofferta. Mi trovo ad ambire alla semplicità, l’incoscienza e inconsapevolezza. Vorrei uno sguardo spento e non il fuoco negli occhi. Vorrei rassegnazione e non rabbia sorda. Ma troppi desideri sono infantili e io sono un adulto all’inferno